Hell's GdR - master of role

Votes taken by caskey

  1. .
    Perfetto!! *^* Che bellina la nuova icon di Dorothea :wub:



    Bastian Köhler
    9FCt0VX
    Mi auguravo che quando ci fossimo avvicinati a Tegel e quindi quando Dorothea avesse intuito quale fossero le mie intenzioni ne sarebbe stata soddisfatta. Speravo che le piacesse quella mia idea e che condividesse il mio desiderio di tornare sulle sponde del lago e di concederci una passeggiata in quel luogo meraviglioso.
    Lasciai che le mie labbra si distendessero in un sorriso divertito udendo la risposta scherzosa di Dorothea alla mia domanda circa la sua fiducia nei miei confronti. Non volevo dare a quelle parole un significato diverso da quello che avevano, ma era stato bello sentirle dire che si fidava di me.
    Raggiunta la mia vettura, Dorothea ipotizzò che avremmo raggiunto un luogo lontano, o, quanto meno, difficilmente raggiungibile a piedi. Non risposi al suo commento, volendo lasciare la nostra meta ancora avvolta dal mistero. Nel corso della nostra conoscenza avevo avuto modo di comprendere che Dorothea fosse una donna molto arguta e credevo che il minimo indizio avrebbe potuto portarla a trarre le giuste conclusioni. Mi concessi, comunque, un accenno di risata, contenuta.
    «Non ti dirò niente: dovrai solo attendere» risposi comunicandole quelle che erano le mie intenzioni: non mi sarei lasciato corrompere, parlando sempre in senso giocoso, naturalmente, e non le avrei dato modo di ipotizzare quale fosse la mia idea.
    Aprii lo sportello dal lato del passeggero per consentire a Dorothea di accomodarsi, dopodiché aggirai l'automobile andando a sedermi al posto del guidatore. Non avevo dimenticato la lezione di guida di Tegel e, se Dorothea lo avesse desiderato, l'avrei lasciata guidare ancora, ma considerando l'ora (era calata la notte e anche se Berlino era illuminata, non appena ci saremmo lasciati alle spalle la città l'illuminazione si sarebbe fatta via via più flebile) e il fatto che Dorothea non sapeva dove eravamo diretti, immaginai fosse d'uopo non offrirle il volante della mia auto. Non dubitavo, comunque, che ci sarebbero state altre occasioni per aggiungere ulteriori lezioni alla prima.
    Guidare di notte mi era sempre piaciuto: lo trovavo estremamente rilassante. Le tenebre escludevano dalla mia vista tutto ciò che reputavo inutile: i pedoni sui marciapiedi, le abitazioni, i negozi. C'era solo la strada. La notte creava un senso di solitudine e di intimità che bene si accompagnava alla mia indole. In realtà non avevo avuto molte occasioni per guidare di notte: prendevo servizio presto al mattino, sebbene ormai fossi un Ufficiale. Mi piaceva arrivare in anticipo in ufficio ed immergermi subito nel mio lavoro. C'era sempre qualche mansione da svolgere per il Reich. L'Impero era stato costruito così in fretta, ma altrettanto in fretta erano nati nemici dello stesso. Gli oppositori politici si sprecavano, in particolar modo tra i giovani studenti. Non ci si poteva riposare un istante, non si poteva levare lo sguardo un solo istante che immediatamente comparivano due, tre dissidenti che insudiciavano le nostre strade con volantini politici. E poi, naturalmente, c'era la caccia agli ebrei. Per quanto ci impegnassimo, per quanto provassimo a fare pulizia, sembrava che quei ratti non finissero mai. Erano ovunque e, soprattutto, si nascondevano ovunque. Nessun luogo era davvero pulito.
    Io lo sapevo bene: ero sempre stato abile nel trovare chi si nascondeva: avevo un istinto formidabile per rintracciare i fuggiaschi.
    Non sapevo come avessi sviluppato quell'istinto, perché ero sempre stato un bambino solitario e non avevo giocato con i miei coetanei a nascondino, ad esempio. Doveva trattarsi quindi di un dono naturale, elargitomi dall'Alto quando ero venuto al mondo.
    E significava che non potevo venire meno a quel dono, non potevo non onorarlo e non usarlo al meglio.
    Allontanai quei pensieri: desideravo godermi quel giro di notte, desideravo non sprecare un solo istante trascorso in compagnia di Dorothea e, soprattutto, non volevo associare a Dorothea il pensiero di quei sudici giudei.
    Avevo sentito, da amici di famiglia, che in America, da un paio di anni, le vetture della polizia erano fornite di una radio attraverso la quale potevano comunicare. Quegli amici di famiglia avevano scherzato su quell'idea, ridendo al pensiero che in un'automobile si potesse ascoltare la radio, ma a me quell'idea non sembrava poi così ridicola. Certo, avrebbe distratto dalla guida, sarebbe stato un accessorio superficiale, ma in quel momento mi sarebbe piaciuto avere una radio in macchina per poter far ascoltare a Dorothea un po' di musica.
    «Vuoi fare un gioco?» proposi. Non mi creava disturbo guidare in silenzio, ma obbligare Dorothea a cercare un modo per far breccia nella mia scarsa loquacità mi sembrava un comportamento indegno, dunque mi sforzai di aprire una nuova conversazione, qualcosa che potesse divertirla e far passare il tempo.
    «Le associazioni. Io dico una parola e tu rispondi con la prima parola che la mia ti fa venire in mente, e via discorrendo» spiegai poi. Poteva sembrare un gioco infantile, ma credevo fosse perfetto per conoscerci meglio.
    «Comincia tu».
  2. .

    Bastian Köhler
    9FCt0VX
    Fui felice di sentire la risposta di Dorothea che ci permetteva di condividere altri istanti assieme e di protrarre il momento in cui ci saremmo salutati. Sapevo, comunque, che quella sera non sarebbe stata l'ultima che ci avrebbe visto insieme: dopotutto Dorothea doveva insegnarmi l'italiano. Inoltre, avrei fatto il possibile per creare altre occasioni durante le quali ci saremmo potuti incontrare. Sentivo di voler trascorrere in sua compagnia quanto più tempo possibile e ancora volevo seguitare a conoscerla.
    Per quanto avessi colto numerose sfumature del suo carattere, sapevo che ancora molto dovevo svelare di lei. Più dettagli scoprivo su Dorothea e più mi sentivo avvinto a lei e credevo che questo stato delle cose non sarebbe mai mutato.
    Distesi le labbra in un sorriso contenuto, eppure completamente sincero, ed assentii una volta con il capo per confermare che avrei realizzato quel suo desiderio.
    In realtà, la mia mente mi aveva proposto uno scenario, un luogo dove avremmo potuto passeggiare, ma non volevo informare subito Dorothea della mia idea. Desideravo che potesse rivelarsi una piccola sorpresa e mi auguravo che quella piccola sorpresa le sarebbe potuta piacere. Discretamente controllai le lancette sull'orologio da polso che indossavo alla sinistra. Mio padre mi aveva anche regalato un elegante orologio da taschino (era stato un presente di facciata: me ne aveva fatto dono durante una cena natalizia data da alcuni amici e il suo intento era stato meramente propagandistico. Aveva voluto dare di noi l'immagine della famiglia unita che a Natale si scambiava regali importanti. Era stato soddisfatto, il mio genitore, dall'impressione data da quel momento di condivisione familiare, anche se non ero stato molto in grado di fingere entusiasmo. L'entusiasmo era un sentimento che pensavo mi fosse sconosciuto, o meglio, che era sempre stato sedato e che solo ora si stava risvegliando poiché solo Dorothea me lo stava facendo scoprire). In ogni caso, preferivo il mio professionale orologio da polso, quello che indossavo tutti i giorni con l'uniforme.
    Aveva un aspetto sobrio, semplice, e mi piaceva proprio per quello. Il pomposo orologio di mio padre lo indossavo solo su sua esplicita richiesta, o quando dovevo presenziare a qualche evento al quale partecipavano anche quegli amici che avevano assistito al commovente scambio di regali padre-figlio.
    «Ti fidi di me?» le domandai adottando un tono ed un'aria criptici che mal celavano un sorriso divertito.
    Ero curioso di scoprire cosa avrebbe risposto Dorothea, anche se, forse un po' orgogliosamente, credevo che sì, si fidasse di me.
    La mia idea prevedeva un viaggio in macchina, dunque non potevo di certo pensare di condurre Dorothea all'interno della mia vettura senza prima darle una spiegazione e credevo che il fare affidamento sulla fiducia che poteva riporre in me fosse il modo migliore per evitare quella spiegazione, almeno fino a quando non fossimo giunti a destinazione.
    Il viaggio sarebbe durato poco meno di un'ora e sicuramente Dorothea avrebbe voluto sapere dove fossimo diretti per passeggiare e, soprattutto, avrebbe voluto sapere perché non avremmo potuto passeggiare nei pressi del teatro che ugualmente offriva un buon paesaggio.
    Alcuni definivano Berlino fredda e distante, troppo industriale e prussiana rispetto al resto della Germania (di quella meridionale, quanto meno), ma io seguitavo ad amare quella città. La sentivo estremamente mia e mi sentivo in profonda sintonia con essa. Avrei fatto qualunque cosa per preservarla, per proteggerla. Sapevo di essere al servizio del Reich, ma in cuor mio sentivo che la mia lealtà era forse maggiormente riposta in Berlino che nell'intero Impero.
    Per quanto amassi Berlino, però, quella sera volevo portare Dorothea fuori dai confini della città. Volevo riportarla a Tegel, il luogo nel quale ci eravamo ritrovati dopo l'evento nel quale avevamo effettivamente fatto la reciproca conoscenza.
    Il lago sarebbe stato deserto, dato l'orario, e avremmo potuto godere appieno della sua vista e della sua aria senza correre il rischio di venire disturbati.
    Per quanto strano potesse sembrare, non nutrivo secondi fini: tenevo così tanto a Dorothea che desideravo solo che ella fosse a proprio agio, che stesse bene e che trascorresse un'ottima serata in mia compagnia. Volevo rendere memorabile il tempo speso assieme e, forse, Tegel mi avrebbe aiutato.


    Secondo Google Map da Berlino a Tegel ci vogliono circa trenta minuti, ma considerando il tipo di macchine del '38 e una rete stradale differente da quella odierna, ho arrotondato all'oretta di viaggio xD
    So di non averti dato molto su cui strutturare la risposta, se non la domanda di Bash, perciò se vuoi, descrivi pure che accompagna Dorothea sino alla macchina e le apre la portiera (;
  3. .

    Bastian Köhler
    9FCt0VX
    Riassunsi la mia iniziale posizione, dritto al centro della poltroncina e non più sporgente verso sinistra. Prima che lo spettacolo riprendesse il suo corso, Dorothea riuscì a domandarmi finora cosa ne pensassi e mi ritrovai ad assentire con il capo per palesare la mia impressione positiva nei riguardi dell'opera.
    «Mi è piaciuta molto» commentai. Sapevo che il finale non sarebbe stato affatto lieto, ma, nonostante il dramma della vicenda, potevo dire che l'esibizione aveva incontrato il mio gusto.
    Ora supponevo che l'opera avrebbe assunto toni più cupi e mesti, completamente differenti dalla frenesia appassionata dell'innamoramento e della vita assieme, così come il furioso temporale sollevato dall'intervento del padre del giovane. Mi aspettavo un'evoluzione più che malinconica e dovevo ammettere che ero curioso di scoprire in che modo gli attori l'avrebbero messa in scena. Ero convinto, tuttavia, che ne sarei rimasto soddisfatto: l'abilità dei cantanti, così come quella dei musicisti ormai era un dato assoldato per quanto mi riguardava. Non credevo che sarei rimasto deluso dal loro talento proprio ora che lo spettacolo stava volgendo verso il proprio epilogo.
    Sapevo che anche Dorothea aveva apprezzato la messa in scena, pertanto non le posi la medesima domanda, anche perché venne annunciata la ripresa dello spettacolo e dunque nuovamente puntammo la nostra attenzione al proscenio. Spostai dunque lo sguardo dalla giovane al palcoscenico, ora rivelato dalle quinte che vennero lentamente spostate. Nuovamente la mia attenzione venne completamente catturata dalla vicenda, seppure, in alcuni frangenti, mi scoprivo come riavermi dalla visione dello spettacolo e, quasi animato da una forza magnetica, mi ritrovavo a volgere i miei occhi su Dorothea, come per accertarmi che stesse bene. Naturalmente sapevo che stava bene, così come sapevo che l'opera era di suo gusto, e forse era per quella ragione che ogni tanto volevo guardarla: volevo vedere in che modo quella delizia, quel piacere, colorasse il suo volto.
    Gli avvenimenti scorsero rapidi sotto i nostri sguardi, o almeno era quello che parve a me quando l'ultima battuta fu cantata, quando l'ultima nota fu suonata e la storia giunse al termine.
    Gli attori si schierarono davanti a noi, tenendosi per mano e con sorrisi caldi e soddisfatti si nutrirono del nostro sentito applauso.
    Mi chiedevo cosa pensassero del nostro accalorato battere di mani: se ormai per loro fosse una consuetudine o se, invece, esso non risultava affatto scontato. Mi sarebbe piaciuto riuscire a leggere i loro volti per darmi una risposta, ma le loro espressioni, così come la loro recita, erano imperturbabili. Apparivano lieti, ma poteva essere solo una maschera indossata ad uopo per non infastidire il pubblico o per farsi ben volere dagli spettatori, nella speranza, magari, di riuscire a convincerli a tornare per assistere ad una replica dell'opera inscenata.
    Io personalmente non ero mai stato molto incline a ricevere elogi. Preferivo fare il mio lavoro e concludere senza che mi venisse rivolto alcun encomio. In tutta onestà, mi mettevano a disagio tanto che, quando in accademia o in caserma i miei ufficiali superiori si rivolgevano a me con parole di stima o sottolineavano i risultati del mio lavoro, ero incline a tagliare corto e a tornare alle mie mansioni.
    Allo stesso tempo, però, il mio orgoglio traeva nutrimento da quelle stesse parole di stima che il mio spirito desiderava evitare.
    Supponevo che la causa di tutto fosse imputabile, ancora una volta, alla mia famiglia. Mai mio padre e mia madre si erano complimentati con me, lasciandomi con una sorta di necessità a primeggiare, un desiderio insaziabile. Non essere mai stato elogiato da bambino, però, mi portava anche a non sapere come comportarmi in simili casi.
    I minuti di applausi cessarono, con buona pace sia del pubblico che reputava di essersi complimentato a sufficienza, sia della compagnia di cantanti e musicisti che ritenne di poter augurare la buonanotte ad ognuno di noi. Cominciarono le comparse ad abbandonare il proscenio, lasciando i due attori protagonisti soli che si congedarono con un nuovo inchino. Quando anche i musicisti si levarono in piedi, fu il segnale che davvero tutto era finito e che ora potevamo abbandonare il teatro.
    Il pensiero che quell'uscita con Dorothea stesse giungendo al termine non mi soddisfaceva: avrei desiderato essere in grado di manipolare il tempo per poter prolungare gli istanti che mi erano concessi di trascorrere assieme a lei, tuttavia sapevo di non poterla derubare eccessivamente del suo tempo.
    «Gradiresti una passeggiata o preferisci che ti riaccompagni subito a casa?» domandai infine.
  4. .

    Ezra 'Barbie' Barnaby
    5Z37ajB
    Era un complimento quello che mi aveva rivolto Nali? Perché aveva tutto l'aspetto di essere un complimento. Il fatto che avessi dei gusti interessanti doveva essere un complimento. Altrimenti non lo avrebbe detto, giusto? Credevo di sì. Nessuna ragazza mi aveva mai rivolto parole gentili. Il massimo che riuscivo ad ottenere era uno sguardo indifferente, privo quindi di quella nota di pietismo per le sorti della mia famiglia e privo di quella venatura di disgusto che il mio essere un iperattivo appassionato di videogiochi suscitava nel genere femminile.
    Più tempo passavo in compagnia di Nali (con Annalise consapevole di trascorrere del tempo in mia compagnia, naturalmente), più mi complimentavo con me stesso per essermi innamorato di lei.
    Come potevano essere due persone più in sintonia?
    Improvvisamente, però, realizzai che forse avere dei gusti interessanti poteva pure significare avere dei gusti bizzarri e bizzarro era sinonimo di strano e strano non piaceva alle ragazze.
    Personalmente, non trovavo niente di male nell'essere strano, perché significava pensare fuori dagli schemi ed io adoravo essere fuori dagli schemi. Mi piaceva ciò che ero e mi piaceva come funzionava la mia mente. Sfortunatamente a scuola ero l'unico a sostenere quella convinzione, ma ero convinto che non appena mi fossi lasciato il liceo, e forse anche il college, alle spalle, avrei incontrato persone che avrebbero capito. Non sapevo cosa avrei fatto da grande, ma ero certo che avrei lasciato il segno.
    Probabilmente sarei diventato un informatico, uno di quelli che venivano contattati per mettere alla prova nuovi sistemi di sicurezza. Mi ci vedevo a smanettare al computer (che, dopotutto, era quello che facevo tutto il giorno escludendo le ore trascorse a scuola). Oppure avrei potuto creare un videogioco supergalattico. Qualcosa avente a che fare con la fantascienza che avrebbe fatto la storia della videoludica. Oppure sarei diventato una sorta di esperto contattato dalle produzioni di film e serie televisive fantascientifiche.
    In ogni caso, sarei stato qualcuno di importante, qualcuno che contava.
    E la mia passione per le stranezze sarebbe stata ripagata.
    Chissà, invece, cosa avrebbe fatto Nali da grande. Era una ragazza straordinaria e poteva riuscire in qualunque carriera avrebbe deciso di intraprendere, di quello non avevo dubbi.
    Ecco perché dovevo continuare a frequentarla: mi mancavano ancora dei tasselli per conoscerla bene, così come due persone che si amavano si dovevano conoscere. Era bravissima con le persone, perciò magari avrebbe potuto fare quello. Ce la vedevo bene impegnata a dirigere un'associazione di beneficenza. O magari poteva lavorare per l'ONU o uno dei suoi dislocamenti. Sarebbe stata perfetta in quel campo. Così entrambi avremmo fatto felici le persone: lei con le sue attività benefiche, io con i miei videogiochi o le mie consulenze che avrebbero reso le produzioni fantascientifiche il più credibili ed appassionanti possibile.
    Che vita che avremmo avuto! Non vedevo l'ora di finire gli studi. L'unica nota negativa era che non avrei avuto più l'occasione di vivere praticamente in simbiosi con Callum, ma lui sarebbe diventato un surfista famoso e avrebbe trascorso le giornate sul divano della casa che avrei abitato con Nali, perciò la situazione non sarebbe cambiata poi molto. Lasciai perdere quelle fantasticherie sul futuro, deciso che le avrei riportate alla mente questa sera stessa, prima di addormentarmi così da favorire i sogni che mi avrebbero visto protagonista con Annalise per concentrarmi sulla conversazione che avevo in atto. Era con Nali che stavo parlando e non potevo permettermi di perdere una sola sillaba che le sue splendide labbra pronunciavano.
    Era davvero l'unica, o, quanto meno, una delle poche persone, che riusciva a tacitare i miei pensieri che altrimenti detenevano tutta la mia attenzione. Poi, parlare di serie televisive era qualcosa che adoravo tanto quanto adoravo i tacos al formaggio.
    Le mie labbra si distesero in un largo sorriso quando Nali si domandò se Sansa e Davos si sarebbero mai incontrati. Era forse un messaggio in codice? Le ragazze parlavano sempre in codice, o almeno era quello che sosteneva Callum. Voleva forse intendere che sperava che lei ed io ci incontrassimo ancora? No, credevo che si riferisse davvero ai due personaggi.
    «Sarebbe fantastico» esclamai. Davos sarebbe stato un cavaliere leale e avrebbe protetto Sansa, consigliandola al meglio. «Mai dire mai» soggiunsi poi. Sia lo scrittore che i produttori della serie televisiva erano famosi per le loro scelte sorprendenti, perciò davvero il mio cavaliere delle Cipolle e la figlia maggiore di Ned e Cat potevano incontrarsi e magari divenire alleati.
    Ero così piacevolmente conquistato dalla conversazione con Annalise che mi ero anche dimenticato di avere fame. Per fortuna ci pensò lei a ricordarmelo! Però cosa potevo dire: sì, magari? Non sarebbe sembrato sgarbato? Tuttavia giocare senza sgranocchiare schifezze dimezzava il divertimento, specie quando si giocava per divertirsi e non per battere il proprio record.
    «Ehm...» esordii quindi lasciando scorrere lo sguardo sul joystick che tenevo in mano. «Magari se hai qualche snack non sarebbe male... Altrimenti non importa, giochiamo pure» borbottai infine, accelerando la velocità con la quale pronunciai le ultime parole.
    Nel frattempo avviai il gioco, che solitamente si prendeva un'infinità di tempo a caricarsi e a propinarci pubblicità relative ai suoi affiliati.
  5. .

    Cale King
    LQ2Mtpi
    Generalmente la prima volta era la più difficile, poi ci si prendeva la mano, perciò credevo che dalla prossima volta fermare una macchina, o meglio, salire su una macchina per farsi scarrozzare lungo tutto il tragitto previsto dai produttori del nostro programma sarebbe stato decisamente più facile. Ero certo, comunque, che avrei ricordato il volto del tizio delle piscine per il resto della mia vita. Era il primo vero birmano con il quale avevo interagito! Non contavano i dipendenti dell'albergo, perché quelli, comunque, erano abituati ad avere a che fare con i turisti, e poi c'erano tutti i membri della produzione: era una cosa estremamente diversa!
    Questa volta, invece, avevamo sì un elemento della produzione (l'operatore alla cinepresa che seguiva ogni nostro movimento), ma eravamo da soli, sprofondati in un Paese che non conoscevamo, anzi, un Paese con usi e costumi completamente differenti dai nostri.
    Io ero australiano, ma il mio modo di vivere non era poi così differente da quello di Erin che era americana. Le nostre culture erano piuttosto affini, perciò la differenza era praticamente minimale. C'era invece tutto un intero mondo in Oriente, un mondo che ora avevamo la possibilità di conoscere.
    Pensieri così profondi raramente mi appartenevano: io ero uno spirito più leggero e mi adattavo facilmente senza filosofeggiare troppo, però anche io avevo capito quanto questo gioco ci avrebbe fatto crescere. In ogni caso, si trattava di un gioco che volevo vincere, a prescindere dall'esperienza e dall'accrescimento personale di cui avrei beneficiato indipendentemente dalla vittoria .
    Insomma, una bella esperienza, ma volevo sollevare la coppa.
    Seguii con lo sguardo i movimenti di Erin mentre caricava il suo zaino nel bagagliaio del furgoncino del tizio della piscina, pronto ad aiutarla se ne avesse avuto bisogno, ma la mia amica fu perfettamente in grado di sistemarlo da sola. Abbozzai poi una risata alle sue parole. Effettivamente non mi ricordavo come avessi raggiunto la macchina: ricordavo solo di essere sul marciapiede e poi mi rivedevo mentre mi chinavo verso il birmano, quindi era estremamente probabile che avessi rischiato di farmi investire.
    «Sono sopravvissuto alle strade americane, la Birmania non mi farà niente» risposi spavaldo. Con Erin scherzavamo spesso su queste sottili discrepanze tra la vita in Australia e quella in America ed io non perdevo occasione per ricordarle come attraversare la strada a casa sua fosse simile a giocare alla roulette russa. Andavano come dannati, gli americani, e ogni volta che vedevano un ostacolo frapporsi sulla loro strada, anziché frenare, suonavano il clacson. Era un dato di fatto, ripreso anche nei film.
    «Andata» risposi ridendo alla sua proposta di fermare lei il prossimo passaggio.
    Ci stringemmo nel retro del furgoncino del tizio delle piscine ed Erin ricordò al nostro autista la nostra meta. Stridendo egli inserì la marcia ed istintivamente voltai lo sguardo verso la mia amica, alla ricerca dei suoi occhi. Non ero una persona dal giudizio facile, ma se quell'uomo non era nemmeno in grado di schiacciare la frizione fino in fondo per inserire la prima, come avrebbe guidato? Sperai che si fosse trattata solo di una sbadataggine momentanea e che in realtà egli si sarebbe rivelato un guidatore provetto. L'operatore ci suggerì di commentare in camera il passaggio appena fermato, così mi avvicinai ad Erin per entrare nell'inquadratura. La mia spalla era appiccicata alla schiena della mia amica, mentre il mio braccio sinistro la stringeva in un abbraccio. Pensai a qualcosa da dire, ma questa volta non era un compito particolarmente difficile: mi ricordava molto le interviste che dovevo rilasciare subito dopo una gara. Bastava parlare di quanto era appena successo. Entrai dunque in modalità intervista post-gara: «Abbiamo fermato subito questa macchina che ci ha dato un passaggio. Adesso non sappiamo fin dove ci porta, ma speriamo il più possibile vicino a Bagon». Mi sembrava un riassunto sufficiente, ma volsi lo sguardo verso Erin che sicuramente avrebbe aggiunto un po' di colore alle mie parole.
    Nel frattempo i miei occhi scrutavano fuori dal finestrino e spiavano dai tre specchietti retrovisori del furgoncino. Volevo assicurarmi che nessuno ci fosse alle calcagna e, specialmente, che nessuno osasse superarci.
    Stavamo mantenendo una buona velocità, anche se secondo me avremmo anche potuto andare più veloce. Il nostro mezzo di trasporto mi sembrava piuttosto resistente, perciò, forse, avremmo potuto spingere ancora un po' di più.
    In ogni caso, avevamo tempo per dire al nostro amico di accelerare.


    Tanto per dare un'idea del tono usato da Cale nell'intervista: hai presente quando fermano i calciatori dopo una partita? Che parlano con la loro voce molto allegra e piena di sfumature? xD Ecco, immaginati Cale con la voce di Buffon xD
  6. .
    Mi piace *^* Stavo pensando alla stessa cosa xD Va benissimo allora, apri pure tu <3
  7. .
    Anche per me è indifferente xD Se vuoi faccio io questo fine settimana *^*
  8. .
    ahahahah siii, non vedo l'ora *^* Vuoi aprire tu o faccio io? xD
  9. .

    Bastian Köhler
    9FCt0VX
    La mancanza di Dorothea era qualcosa di impossibile da non notare. Avvertivo nettamente come un senso di vuoto generato dalla sua assenza. Avvertivo tale sensazione con maggiore intensità poiché mi ero allontanato da Dorothea da poco tempo. Come poteva una persona essere così decisiva nella vita di un'altra? L'assenza della giovane si trasformava in una sorta di mancanza fisica, come se desiderassi bere e non potessi dissetarmi.
    Il mio volto impassibile era una perfetta maschera dietro cui si celavano i miei tumulti e le mie riflessioni. Dorothea destabilizzava tutte le mie certezze, mi portava a pensare a lei e al modo in cui lei influiva su tutto di me. Per quanto simili pensieri mai prima d'ora avessero attraversato la mia mente e per quanto questi stessi pensieri mi portassero alla conclusione che esisteva qualcuno in grado di esercitare un potere su di me, non mi sentivo infastidito. Non ero crucciato da quella scoperta, né dal cambiamento.
    Non ero mai stato estremamente incline al mutamento, in realtà. Trovavo confortevole l'idea dell'immutabilità degli aspetti fondamentali della vita. Mi piacevano le mie abitudini, in un certo senso mi piaceva rifugiarmi in esse, e non avevo mai visto di buon occhio l'inserimento di qualche aspetto che le modificasse. Quando, però, riflettevo sul cambiamento che Dorothea aveva portato con sé, non potevo fare a meno di distendere le labbra in un sorriso e rendermi conto che quelle modifiche non fossero affatto negative, tutt'altro.
    Potevo ritenere che con Dorothea stessi compiendo un percorso, come uno di quei viaggi di cui si narrava nei romanzi di formazione, e che questo percorso si sarebbe concluso con una mia maggiore maturazione intellettuale. Mi ero sempre reputato estremamente maturo, specie se mi paragonavo ai miei coetanei, ma ovviamente non credevo di essere il massimo esperto in saggezza. Sapevo di avere ancora molto da imparare, e non mi riferivo solo alle nozioni che avrei ancora potuto apprendere. Molto della vita mi era ancora ignoto, non avevo la presunzione di definirmi conoscitore di tutto ciò che valeva la pena conoscere.
    Una volta accomodato sulla poltroncina del teatro, portai la gamba sinistra sopra la destra, con il ginocchio piegato ad angolo retto mentre il mio gomito sinistro su puntellava sul bracciolo e il mio palmo aperto accoglieva il mio mento. Mi ero sporto lievemente verso sinistra, da dove probabilmente sarebbe giunta Dorothea. Senza che me ne accorgessi, in un gesto pensieroso, il mio indice cominciò ad accarezzarmi distrattamente il profilo della mascella. Avvertii la pelle perfettamente liscia in seguito alla rasatura di quella mattina. Ad alcuni miei colleghi piaceva l'idea del militare dall'aspetto trascurato. Dicevano che aiutava nella missione di impressionare le ragazze, ma dal mio punto di vista quell'aspetto trasandato non rendeva onore al nostro ordine.
    Non mi sarebbe dispiaciuto, onestamente, lasciarmi crescere la barba. Non intendevo rassomigliare nell'aspetto agli officianti ebrei, ma non mi sarebbe dispiaciuto lasciare un leggero velo incolto a sottolineare i miei tratti, tuttavia non ero certo che quello fosse l'aspetto che avrei voluto avere con indosso la divisa. Con l'uniforme desideravo che tutto fosse perfetto, che tutto apparisse in un certo senso ligio ed ordinato, a partire da come curavo il mio aspetto estetico. Tenevo sempre i capelli in perfetto ordine quando prendevo servizio, perfettamente pettinati e portati con una rigida scriminatura sulla sinistra.
    In realtà era da quando avevo iniziato a frequentare il collegio che portavo i capelli a quel modo. Era il taglio, l'unico che il direttore consentiva ai suoi allievi. Non avevamo molte possibilità per affermare la nostra individualità, in collegio. Forse quell'aspetto così intransigente aveva favorito la mia immedesimazione così profonda nei valori del Reich. Sapevo di essere solo un ingranaggio proprio perché da bambino nessuno mi aveva fatto notare quanto ognuno di noi fosse diverso l'uno dall'altro e come fossero quelle diversità a renderci speciali.
    Nella mia infanzia, più ci si accomunava agli altri, meglio era.
    Inspirai a fondo, allontanando quei pensieri quando Dorothea mi raggiunse, riprendendo il suo posto accanto a me.
    Distesi successivamente le labbra in un sorriso udendo il suo commento.
    «Sì, non ti sei persa nulla» rimarcai. Naturalmente sapevo che Dorothea fosse perfettamente consapevole di essere arrivata in tempo e che, di conseguenza, non aveva perso la ripresa dello spettacolo, tuttavia pensai fosse semplicemente la cosa giusta da dire.
  10. .

    Bastian Köhler
    9FCt0VX
    Assentii con un cenno del capo, senza che le mie labbra perdessero il loro sorriso, alle parole che mi rivolse successivamente Dorothea. Non desideravo separarmi da lei un solo istante, ma naturalmente non volevo di certo seguirla all'interno dei bagni delle signore, così decisi che l'avrei attesa in sala. L'ultima cosa che desideravo era soffocare Dorothea e di conseguenza non volevo imporre la mia presenza.
    Tutto in lei mi aveva portato a pensare che fosse una donna indipendente, che si fosse affermata e che stesse interagendo con la vita al fine di ottenere da essa il miglior risultato raggiungibile, dunque non pensavo che fosse una di quelle persone che necessitavano della presenza di altre per star bene.
    Volendo rispettare quella conclusione alla quale ero giunto, ero del parere di adattare ad essa i miei atteggiamenti.
    Non sarebbero state azioni particolarmente faticose giacché la mia propria indole mi portava a non impormi, non quando si trattava di incontri e conoscenze di piacere e non di lavoro. Per ovvie ragioni, quando indossavo l'uniforme e durante le mie visite ai cittadini tedeschi di dubbie origini l'ultima cosa che mi importava era il modo in cui venivo accolto.
    Di certo mi interessava ben poco di non impormi, anzi, era l'imposizione la caratteristica migliore per riuscire a primeggiare nel mio impiego. Se avessi adottato un atteggiamento eccessivamente docile o indulgente, non sarei riuscito ad ottenere i risultati che desideravo conseguire.
    Sarei stato solo un inetto, quasi un pollo, con indosso un'uniforme. Una creatura, insomma, di cui gli avversari del Reich si sarebbero presi gioco.
    Sfortunatamente, per quanto la razza ariana fosse senza ombra di dubbio la più pura e perfetta, contavamo anche noi alcune manchevolezze. Più che un noi in generale, erano alcuni dei nostri che mancavano in qualcosa. Il più delle volte, era la spina dorsale che veniva meno.
    Nella mia esperienza, dapprima in collegio, passando per l'accademia militare e concludendo con i miei colleghi, avevo avuto la sfortuna di incontrare ariani che definire mollicci sarebbe stato un eufemismo.
    Personalità così prive di spessore da apparire indegne della divisa indossata. Quelle persone erano la dimostrazione che la razza non era tutto, che anche essa poteva fallire.
    Era un pensiero che non ammettevo e non condividevo con nessuno dacché mi rendevo conto di quanto poco patriottico fosse, tuttavia non potevo negarlo.
    L'esperienza e la vita mi avevano fatto mostra di alcuni difetti che non venivano menzionati nel Mein Kampf, che non venivano presi in considerazione in alcun dibattito. Se la razza ariana era la migliore (e su questo punto non dubitavo affatto), perché vi erano degli indegni anche tra le nostre fila? La risposta poteva essere una e semplice: questi indegni non erano di razza pura. Mio padre in questo modo avrebbe semplificato i miei dubbi, le mie considerazioni, ma qualcosa mi portava a pensare che non fosse quella la verità.
    In ogni caso, quelle erano questioni per i pensatori mentre io ero solo un soldato. Non faceva parte dei miei compiti l'interrogarmi sulla nostra politica: io dovevo limitarmi ad agire affinché essa potesse trionfare.
    Non era un compito di cui ero grato di essere stato esentato: per quanto fossi un vero soldato, addestrato ad eseguire gli ordini senza porre domande, mi reputavo anche un pensatore e non ero quel genere di persona che preferiva mettere a tacere la propria mente.
    Dopo aver percorso un tratto di corridoio assieme a Dorothea, ci separammo ed io feci ritorno nella sala, dove raggiunsi il mio posto e tornai ad accomodarmi sulla poltroncina.
    La sala era ancora mezza vuota: diversi altri spettatori, dunque, non erano ancora rientrati. Il brusio raggiungeva le mie orecchie, ma non mi infastidiva. Non ero concentrato su quei rumori.
    Nuovamente la mia attenzione venne attirata dai musicisti che stavano approntando gli spartiti per affrontare il terzo ed ultimo atto dell'opera. Supponevo che si sarebbe aperto con un crescendo d'angoscia, sino poi a sfumare verso la fine. Conoscevo il finale della storia, e sapevo che non sarebbe stato felice, dunque mi ero preparato ad ascoltare musiche e parole struggenti e drammatiche.
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    Continua da: Una scelta è come un salto: ti spaventa, lo rimandi, ma se ti butti è libertà


    Seamus Branson
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    Kieran Huisman era il fratello del mio migliore amico di Belfast. Aveva qualche anno più di noi e un'inclinazione alle birichinate che lo aveva portato ad entrare nel mio giro di conoscenze da quando avevo circa sei anni.
    Cillian, il mio migliore amico, era stato ben felice di coinvolgere il fratello nei nostri traffici e fu così che iniziò. Eravamo un terzetto davvero niente male, a Belfast. Seamus, Kieran e Cillian, sempre noi tre, sempre a cacciarci in mezzo ai guai.
    Eravamo cresciuti insieme, insieme avevamo smesso i pantaloni al ginocchio per indossare quelli lunghi, insieme ci eravamo affacciati all'età adulta. La differenza di età era praticamente annullata considerando che Kieran possedeva il nostro stesso livello di maturità.
    Poi, però, la vita ci aveva allontanati.
    Kieran era stato il primo ad andarsene: aveva conosciuto Fleur, una splendida ed estremamente ricca ereditiera francese che, ancora non sapevo per quale ragione, si era innamorata di lui. Si erano sposati dopo due mesi di frequentazione e il mio amico era andato a vivere nel Sud della Francia, in un paesino affacciato sul mare. Il secondo ad uscire dal gruppo ero stato io: mia madre si era ammalata e mi ero trasferito in Scozia per poterle garantire le migliori cure. Era rimasto solo Cillian, che ancora viveva a Belfast e faceva il meccanico.
    Sebbene fosse davvero troppo che non ci vedevamo di persona, seguitavamo a scriverci. Conservavo le lettere dei miei due cari amici in una scatola di latta, nemmeno fossero missive d'amore da parte di una fidanzata, ma solo chi aveva affrontato l'infanzia a Belfast poteva sapere quanto l'amicizia tra ragazzi fosse importante, fondamentale.
    Avrei dato la mia mano destra per quei due fratelli ed ero certo che loro avrebbero fatto altrettanto per me.
    Ecco perché mi ero subito attivato dopo che avevo ricevuto l'ultima lettera di Kieran. Il messaggio esordiva, come sempre, con un caloroso saluto e l'elenco dettagliato delle meraviglie che la costa francese offriva, poi il mio amico ricordava con malinconia l'Irlanda e la nostra infanzia. Successivamente si sincerava della mia condizione e mi canzonava bonariamente. Fino a quel punto, era stato tutto normale, ma poi il seguito mi aveva letteralmente lasciato ammutolito. Kieran diceva di aver incontrato una ragazza, un'americana, che aveva delle doti speciali. Diceva che fosse una sensitiva e che poteva mettersi in contatto con gli spiriti dei defunti. La mia mente scettica e assolutamente terrena aveva imposto alla mia bocca di torcersi in un'espressione disgustata che sfortunatamente rimase senza pubblico. Sam, così si chiamava l'impostora, diminutivo di Samantha, supponevo, si era insediata nella grande villa mediterranea del mio amico e di sua moglie, vivendo sulle loro spalle. La storia andava avanti ormai da più di un mese. Kieran diceva che lui e Fleur erano rimasti impressionati dalle straordinarie abilità di questa millantatrice che era riuscita ad entrare in contatto con i rispettivi genitori dei coniugi, tutti e quattro deceduti da svariati anni. Era naturale che credessi che questa Sam fosse solo un'ambiziosa pulce che desiderava arricchirsi alle spalle del mio amico.
    Avevo prontamente telefonato a Cillian, chiedendogli se lui sapesse qualcosa al proposito, ma sfortunatamente il mio migliore amico aveva confermato ciò che già sospettavo: Kieran era cotto. Non nel senso di innamorato, ma nel senso di pollo fatto arrosto e servito con patate. In qualità di cinico materialista, mi sentivo incaricato da una qualche entità superiore di andare in Francia, smascherare la truffatrice e riportare sulla via della ragione Kieran e Fleur. Sussisteva, però, un piccolo problema: io non parlavo una sola parola di francese e il viaggio più lungo che avevo intrapreso mi aveva portato da Belfast a Glasgow, niente di più.
    Mentre riflettevo osservando con esasperato disgusto la lettera di Kieran, nella mia mente echeggiò una voce femminile che diceva di essere francese. Associai immediatamente quella voce ad un volto e un sorriso soddisfatto distese le mie labbra nell'esatto istante in cui mi rendevo conto di avere la soluzione ai miei problemi: Darleen Morgan. Era francese, perciò conosceva la lingua. Era una cantante, dunque abituata allo spettacolo, alla teatralità. Chi meglio di lei avrebbe potuto darmi man forte nelle mie indagini? Sicuramente le sarebbe piaciuto: non mi aspettavo che rifiutasse. O meglio, sicuramente avrebbe rifiutato perché sarei stato io a proporglielo, ma poi avrebbe ceduto e mi avrebbe accompagnato.
    Era passato del tempo dall'ultima volta che ci eravamo incontrati, ma non dubitavo che ricordasse chi fossi. A passo sicuro mi avviai verso casa sua, dopodiché bussai alla sua porta: quattro colpi ben piazzati, esattamente nel mio stile.
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    Bastian Köhler
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    Credevo che Dorothea fosse la persona che mi conosceva meglio. Sentivo che mi conosceva anche più di quanto mi conoscessero i miei genitori, sebbene fossi consapevole che non occorresse un grande sforzo per sapere più cose sul mio conto rispetto a quante mio padre e mia madre sapevano; tuttavia dovevo sincerarmi che i miei silenzi e la mia scarsa propensione alla loquacità non la ferissero. Desideravo essere sicuro di questo aspetto, così avevo voluto metterlo in chiaro, confidando che Dorothea avrebbe compreso la sincerità dei miei timori e che mi avrebbe risposto altrettanto sinceramente.
    Non mi sarei mai perdonato se per una mia azione Dorothea avesse sofferto ed ero certo che quella mia determinazione a farla star bene, a non farla soffrire non sarebbe scemata col tempo. Avrei seguitato a desiderare il meglio per lei, perché Dorothea meritava il meglio, anche se questo l'avrebbe portata lontano da me. Non tolleravo l'idea di separarmi da lei, ora che l'avevo conosciuta, ma non mi sarei imposto nella sua vita e avrei accettato ogni sua decisione. In passato il futuro non mi aveva mai spaventato: la mia strada, il mio cammino, era pianificato sin nei minimi dettagli ed io avevo seguito quel percorso, senza mai allontanarmi dal sentiero tracciato dalla mia famiglia. Non avevo timore dell'incertezza, non avevo paura dell'avvenire, perché l'avvenire al quale sarei andato incontro era esattamente quello che mi aspettavo. Dorothea era la prima incertezza nella mia vita, il primo aspetto, importantissimo, che non avevo preventivato. Non avevo mai pensato alla mia vita amorosa, sebbene non fossi esattamente privo di esperienza. Tutte le mie frequentazioni passate, brevi, talune imposte dalla mia famiglia, tal altre da una fortuita combinazione di eventi, mi avevano sempre lasciato piuttosto indifferente. L'idea dunque di interrompere una di quelle relazioni non mi aveva mai impensierito minimamente. Di contro, ora, con Dorothea al mio fianco, il futuro assumeva una nuova sfumatura che lo dipingeva di un colore mai visto prima: era il colore dell'ignoto. E quell'ignoto riempiva la mia mente ogni volta che mi soffermavo a pensarvi. Volevo che Dorothea rimanesse nella mia vita. Ancora non sapevo per quanto, anche se, se avessi dovuto affidarmi solamente al mio istinto, avrei detto che l'avrei voluta per sempre nella mia vita. Ma comunque non ero un ingenuo e sapevo che poteva esservi qualcosa, che ora mi sfuggiva e non riuscivo a concepire, che avrebbe potuto allontanarci, sciogliere quel nodo che intrecciava le nostre vite. Per quanto non lo avrei voluto, non potevo ignorare quell'ipotesi che mi portava ad immaginare un futuro senza più Dorothea. In quel caso, avrei voluto che fosse felice anche senza di me e avrei mantenuto fede alla parola data: avrei fatto qualunque cosa per renderla felice.
    Fui felice di sapere che la mia precisazione fu del tutto superflua: Dorothea non si era mai sentita in qualche modo offesa dalla mia scarsa loquacità.
    Tutto nelle sue azioni, nel tono della sua voce, nell'espressione adottata dal suo volto, mi faceva credere che fosse sincera e non avevo alcun motivo per dubitarne. Distesi dunque le mie labbra in un nuovo sorriso, accennando un piccolo segno con il capo che si abbassò in una sorta di assenso in seguito alle sue parole.
    La sua successiva rivelazione mi lasciò completamente senza parole, piacevolmente sorpreso ed iniziai ad avvertire un intenso calore sorgere dalla bocca dello stomaco e disperdersi per tutto il mio corpo, un calore che andò a mischiarsi al mio sangue che scorreva sottopelle e che raggiungeva ogni punto del mio essere. Provai l'intenso desiderio di protendermi verso di lei e baciarla nuovamente, assaporare le sue labbra, dimentico di chiunque ci fosse attorno, ma in un ultimo barlume di dignità mantenni la mia posizione.
    «È esattamente lo stesso per me» rivelai successivamente, una volta ritrovata la facoltà di parlare. In compagnia di Dorothea mi sentivo accettato, completamente. E anche se all'inizio avevo creduto che una creatura come lei non potesse trovare interesse in un uomo d'acciaio come me, niente nelle sue azioni mi aveva mai fatto anche solo intuire di non essere alla sua altezza, tutt'altro. Al fianco di Dorothea sentivo di non essere giudicato, bensì di essere accettato, ascoltato in tutti i sensi, esattamente per ciò che ero. A Dorothea interessavo io, come persona, e questo era stato dal nostro primo incontro. Non era stata la divisa ad impressionarla, né il nome della mia famiglia. Ero stato io, qualcosa che aveva avuto inizio direttamente da me, indipendentemente da qualsiasi altro fattore esterno. Era un aspetto prezioso, un dono particolare che nel mondo nel quale vivevamo era più che raro. E a dispetto di tutto l'impegno e la fatica compiuti per diventare Obersturmführer così giovane, mi piaceva. Mi piaceva essere giudicato per ciò che ero, non per quello che facevo.
    «Sembra strano, impossibile quasi, ma è come se tu fossi in grado di vedere la mia anima» risposi aggrottando poi le sopracciglia per allontanare quel pensiero sorto così spontaneamente e altrettanto spontaneamente affiorato sulle mie labbra.
    Infine Dorothea accettò la mia offerta e un nuovo sorriso distese la mia bocca. Ero lieto di sentirlo e speravo che realmente in futuro si sarebbe rivolta a me nel caso in cui avesse necessitato di un qualsiasi tipo di aiuto.
    «Sono davvero lieto di sentirlo... Penso però che ora sia il caso di rientrare se non vogliamo perdere l'inizio del terzo atto» suggerii infine, lanciando una rapida occhiata all'orologio posto dietro il bancone del bar.
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    Bastian Köhler
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    Il commento di Dorothea distese completamente i tratti del mio volto, mentre un sorriso divertito sorse sulle mie labbra. Mi unii alla sua risata, muovendo di poco il capo.
    Colsi perfettamente il tono ironico usato da Dorothea, e lo feci mio nell'espressione del mio volto che ora divenne fintamente colpevole.
    «Hai ragione, scusami» convenni divertito.
    Anni ed anni in luoghi di rigore, in luoghi freddi e anaffettivi, a nuotare contro la corrente nel tentativo di emergere e arrivare primo al traguardo al fine di rendere i miei genitori fieri di me avevano reso il mio carattere poco incline alla conversazione. O forse era semplicemente questione di personalità, piuttosto che di passato, e anche se fossi stato amato dai miei genitori, anche se fossi stato accettato e se mi fossi sentito inserito nel mio ambiente familiare, sarei stato ugualmente poco loquace.
    Amavo i miei silenzi, così come i silenzi delle persone che mi stavano attorno e, per quanto non li avrei mai rinnegati, mi rendevo conto che vi erano situazioni, come quell'istante con Dorothea, dove forse sarebbe stato d'uopo se mi fossi prodigato in una spesa maggiore di parole. Sfortunatamente, complice l'ambiente militare, ero abituato ad utilizzare formule brevi e concise per esprimere tutto il mio universo, tutto il mio mondo, dunque non avrei nemmeno saputo da che parte cominciare per ampliare il mio discorso.
    Durante l'infanzia, avevo imparato a parlare poco per non infastidire mia madre, sempre vittima dell'emicrania, per non indispettire mio padre, con la mente sempre proiettata al lavoro e al suo futuro, alla sua ascesa.
    Successivamente, crescendo, avevo imparato a trovare in me stesso il conversatore ideale, io ero la mia migliore compagnia, e di conseguenza non avevo fatto pratica nell'arte della conversazione. Inoltre, durante quelle occasioni che mi garantivano la possibilità di fare pratica, non trovavo nessun interlocutore che suscitasse la mia curiosità e con il quale volessi conversare.
    Le chiacchiere mi parevano vuote e non riuscivo ad inserirmi con un concetto che non fosse altrettanto vuoto, pertanto avevo sempre preferito rimanere in silenzio.
    Probabilmente Dorothea avrebbe dovuto educarmi in tal senso, se avesse preferito un compagno dalla parlantina più sciolta. Tuttavia, ero consapevole del fatto che Dorothea fosse conscia che, sebbene non parlassi molto, la mia mente era tutt'altro che vuota.
    Il mio silenzio ovviamente non era palesamento del silenzio che taceva nella mia mente, tutt'altro.
    «La prossima volta ti prego di interrompermi se dovessi prendere nuovamente il monopolio della conversazione» scherzai ancora. Mi concessi alcuni sorsi di acqua, arrivando quasi a tre quarti del bicchiere. Avevamo ancora svariati minuti prima che riprendesse lo spettacolo, con l'apertura del terzo atto, perciò potevamo ancora attardarci al bar.
    Tornai nuovamente serio per qualche istante, giusto il tempo necessario per sincerarmi di non venire frainteso. Onestamente sentivo che Dorothea poteva comprendermi, poteva comprendere perfettamente la mia anima, ma non volevo lasciare nulla al caso, così decisi fosse il caso di specificare la natura del silenzio che mi avvolgeva.
    «Sinceramente, spero che il mio essere laconico non ti infastidisca o non ti offenda: ti assicuro che mi trovo... perfettamente a mio agio in tua compagnia e che semplicemente sono più un ascoltatore che un oratore» conclusi con disarmante schiettezza.
    Poiché tenevo immensamente a Dorothea, non desideravo affatto che qualcosa potesse offenderla o in qualche modo farla rimanere male, e dunque ero deciso a confutare ogni sorta di dubbio in questo senso avrebbe potuto affliggerla.
    Onestamente mi trovavo meglio in sua compagnia che in compagnia di chiunque altro, considerando persino i miei genitori, e desideravo che lei questo lo sapesse.
    «Dorothea, posso rivolgerti anche una preghiera?» domandai dopo qualche istante. «Se per caso ci fosse qualcosa, qualsiasi cosa che ti infastidisse, vorrei che me ne parlassi. Mi piacerebbe che mi considerassi a tua disposizione, per qualunque tua esigenza». Mi auguravo di non essere apparso eccessivamente invadente, ma erano parole che volevo sinceramente rivolgerle e, per una volta, avevo deciso di dimenticare freni e censure.
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    Bastian Köhler
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    A quanto sembrava quella citazione che mi era rimasta impressa apparteneva proprio alla Signora delle camelie. Non avevo letto il romanzo, reputato da chiunque di stampo prettamente femminile (sebbene l'autore fosse un uomo), e non era contemplato tra le mie letture. Né io, a dirla tutta, avevo mai espresso un particolare interesse nei riguardi di quella trama, tanto da spingermi a recuperare il romanzo. Sebbene fossi un fervido lettore, i romanzi verso cui guardavo erano ben diversi.
    Tuttavia, quando avevo udito parlare di quella storia, non avevo potuto non prestarvi attenzione: forse perché ero sempre interessato ai comportamenti umani. Per quanto mi fossi sentito per gran parte della mia vita diverso dagli altri, almeno sino a quando non avevo trovato nel regime instaurato dal Reich una sorta di esaltazione di quelle doti che mi appartenevano, mi incuriosivano gli atteggiamenti e i comportamenti degli altri. Non in modo ossessivo o spasmodico. Più che altro, la mia si poteva considerare una propensione allo studio delle persone. Mi interessava comprenderle. Immaginavo che fosse per quella ragione che ero dannatamente bravo nel mio lavoro: sapevo calarmi nella mente delle prede proprio a causa del mio interesse per gli altri.
    Il mio istinto, che mi guidava con precisione e cura, era cresciuto e fomentato dal continuo osservare gli altri. Capire il modo di reagire di questo o quel carattere mi portava a possedere una mente allargata, in un certo senso, e dunque una mente capace di uscire dai propri schemi.
    Al lavoro, quegli stessi colleghi che mi chiamavano l'Uomo d'Acciaio dicevano che la mia mente era chiusa, proprio perché ero d'acciaio, ma si sbagliavano immensamente.
    I miei valori mi portavano ad un atteggiamento rigido e poco incline alle eccezioni, ma la mia mente era estremamente aperta, pronta a cogliere ogni sfumatura nell'animo delle persone.
    Immaginai che fosse anche per quella profonda conoscenza che disdegnavo la maggior parte delle mie conoscenze. Riuscivo sempre a trovare dei difetti (talvolta essi non erano nemmeno celati), che mi portavano a pensare che quella conoscenza fosse indegna, inadeguata, alla mia persona.
    Ecco dunque che, quando mi si raccontava qualcosa, prestavo sempre attenzione. Anche quando mi venivano rivolte parole vuote riferite ad argomenti altrettanto vuoti, ascoltavo sempre diligentemente. Non si sapeva mai che in futuro, quelle parole vuote, mi fossero tornate utili. Ricordavo perfettamente di una volta in cui la moglie di un mio superiore si era intrattenuta con me per diverso tempo durante uno dei ricevimenti dati dalle Schutzstaffel raccontandomi di uno splendido balletto che era andata ad assistere. Non avevo reputato importanti quelle informazioni, ma naturalmente avevo dato l'impressione di essere rapito dalla sua narrazione. Qualche giorno dopo, però, avevo scoperto che il mio superiore, quello stesso giorno in cui era organizzato il balletto, era rimasto al quartier generale, intrattenendosi con un altro ufficiale, e dunque avevo svelato la menzogna della moglie che, probabilmente, era andata ad assistere allo spettacolo in compagnia di un altro uomo, e non del marito come mi aveva detto.
    Avevo dunque scoperto un segreto, di lieve importanza, naturalmente, e che non avrei svelato, ma comunque quell'episodio mi tornava spesso in mente quando ero costretto a prendere parte a conversazioni che reputavo futili.
    Fui felice di scoprire di non essermi sbagliato nell'enunciare quella frase, e che realmente fosse tratta dal romanzo di Dumas figlio.
    Distesi le labbra in un sorriso udendo la declamazione dell'intero paragrafo da cui la mia frase era tratta. Quella parte mi giungeva nuova, e mi ritrovai ad annuire al commento di Dorothea: erano parole davvero belle, seppur, per i miei gusti, eccessivamente cariche di un romanticismo forse superfluo. Ero più un estimatore dei sussurri che delle grandi dichiarazioni, così come nella letteratura preferivo uno stile leggermente più riservato e diretto che non uno ridondante come quello dell'autore francese. Tuttavia non potevo negare che egli fosse estremamente abile in quella che, ai miei occhi, era una missione ardua: l'utilizzo delle parole. Ero una persona decisamente taciturna, non mi piaceva molto parlare ed ero un estimatore dei silenzi. Forse, se fossi stato abile come Dumas, sarei stato diverso, ma, onestamente, non mi recriminavo il mio silenzio e il mio spirito quieto.
    «Molto bella» convenni quando Dorothea ebbe concluso. "E veritiera" soggiunsi mentalmente. Ero convinto che due persone si sarebbero potute riconoscere anche senza guardarsi in volto, quando il sentimento che le univa era profondo ed autentico. Non necessariamente tale sentimento doveva essere di natura amorosa: poteva trattarsi anche di un'unione familiare, di un legame di sangue, ma ugualmente, quando due persone erano unite, niente poteva dividerle ed esse si sarebbero ricercate e ritrovate sempre.
    Mi domandai se quello sarebbe stato anche il destino di Dorothea ed il mio: anche noi saremmo riusciti a riconoscerci anche con i volti celati? Io credevo di sì. Sarei riuscito a riconoscere il portamento, l'atteggiamento di Dorothea tra chiunque altro.
123 replies since 11/9/2009
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